“A che mi servono i piedi se ho ali per volare” (dal Diario di Frida Kahlo)
La vita e l’arte della pittrice messicana Frida Kahlo (1907-1954) sono state profondamente influenzate dal tragico incidente subìto quando aveva appena 17 anni. Mentre si recava all’università, l’autobus su cui viaggiava è stato investito da un tram provocandole tre fratture al bacino, undici alla gamba destra e una ferita al fianco con lesioni agli organi genitali che comprometteranno future gravidanze. Nel corso della sua breve e tormentata vita si è sottoposta a trentadue operazioni, nessuna risolutiva: ha dovuto imparare a convivere con il dolore “Il dolore non è parte della vita, può diventare la vita stessa” scrive in una lettera a Leo Eloesser. Prima di allora Frida voleva diventare un medico, ma nei mesi trascorsi in ospedale in seguito all’incidente è nata l’artista. L’iniziale immobilità l’ha resa il suo primo soggetto: comincia a dipingere il proprio piede che spuntava dalla coperta del letto e, quando i genitori le fanno montare uno specchio sul soffitto, inizia la lunga serie di autoritratti che diventeranno i suoi dipinti più significativi. A sessant’anni dalla morte sbarca alle Scuderie del Quirinale la mostra che fa parte di un progetto tra Roma e Genova (il 20 settembre sarà a Palazzo Ducale) “Frida Kahlo e Diego Rivera”. Nel titolo, come nella vita, è stato impossibile separarla da quel marito - il grande pittore muralista - che lei stessa ha definito l’altra sua fonte di dolore: “Ho subìto due gravi incidenti nella mia vita… il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego” ma che è stato sempre al centro della propria esistenza (basti vedere “Autoritratto come Tehuana o Diego nei miei pensieri” in cui Rivera è raffigurato sulla sua fronte come terzo occhio). Hanno superato crisi, separazioni e tradimenti reciproci – anche omosex da parte di Frida. Nell’esposizione il tutto è racchiuso in quaranta ritratti e autoritratti, tra cui spicca “Autoritratto con collana di spine”, mai esposto in Italia. La prima sala ci presenta il “Paesaggio con cactus” di Rivera, caratterizzato da evidenti simbolismi sessuali. Poco dopo il matrimonio Frida accompagnò il neo sposo a New York, dove esplorò ancora di più la propria identità nazionale: fu una grande interprete del folclore messicano, che fa da sfondo a diversi dipinti, molti dei quali di matrice surrealista. Nel 1932 a Detroit ebbe un aborto: l’artista rappresentò questo nuovo dramma personale in “Henry Ford Hospital”, di cui è esposto uno studio preparatorio - l’immagine del feto che si allontana dal proprio corpo rimane uno dei suoi soggetti più toccanti. Il bambino che non ha mai potuto avere è disegnato anche su un corsetto ortopedico, qui esposto in una teca. Nel 1933 i coniugi Rivera lasciarono gli Stati Uniti quando il murale che Diego stava realizzando al Rockefeller Center fu rifiutato dal committente in quanto l’artista vi aveva inserito un ritratto di Lenin. Figlia della rivoluzione messicana, femminista, spirito libero (la propria abitazione era collegata da un ponte alla casa-studio dell’amato Diego), Frida diede asilo a Lev Trotsky, in fuga da Stalin insieme alla moglie, e André Breton. Dall’inizio degli anni cinquanta la salute, già precaria, peggiorò inesorabilmente e nell’ultimo periodo della sua vita la Kahlo si dedicò alle nature morte, ritenute più facili da vendere. Visse abbastanza per vedere il successo ma solo dopo la morte divenne un mito finalmente uscito dall’ombra del più celebre Diego Rivera.
“Ero solita pensare di essere la persona più strana del mondo ma poi ho pensato, ci sono così tante persone nel mondo, ci dev’essere qualcuna proprio come me, che si sente bizzarra e difettosa nello stesso modo in cui mi sento io. Vorrei immaginarla, e immaginare che lei debba essere là fuori e che anche lei stia pensando a me. Beh, spero che, se tu sei lì fuori e dovessi leggere ciò, tu sappia che sì, è vero, sono qui e sono strana proprio come te.” (dal Diario di Frida Kahlo)
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