Carl Orff li musicò nel 1934, ma i Carmina Burana hanno origini ben più remote: furono scritti, infatti, dai clerici vagantes medievali tra il XI e il XII secolo. Ritrovati nell’abbazia di Benediktbeuern (antica Bura Santi Benedicti sulle Alpi bavaresi), devono il loro nome allo studioso J. A. Schmeller che nel 1847 ne curò la pubblicazione. Solo negli anni ’60 la filologia musicale e le sonorità originarie sono state ricostruite: il Codex Buranus reca, infatti, i testi dei canti senza indicazione di intervalli e tempo utilizzando la cd. notazione neumatica. La versione di Orff, però, era già celebre e aveva reso i Carmina Burana la sua opera di punta. Dei 228 brani originali Orff ne scelse 24, aggiunse il sottotitolo “Canzoni profane, per solisti e coro accompagnati da strumenti e immagini magiche” e li organizzò in un Prologo, dedicato alla Fortuna, e in tre sezioni: una dedicata alla Primavera, una ai discorsi che si svolgevano nella Taverna e una alla Corte d’amore. L’opera si chiudeva poi nuovamente con il brano iniziale, il famosissimo "O Fortuna". Il compositore tedesco rimase colpito dalla forza e dalla capacità immaginifica di quelle parole, ma non ne scrisse mai una drammaturgia. La versione scenica per la prima rappresentazione, l'8 giugno 1937 a Francoforte sul Meno, lo deluse molto e da allora assai di rado questa composizione ha lasciato le sale da concerto per entrare in teatro. Mietta Corli ha accettato la sfida di un allestimento teatrale e ha proposto la sua regia con tanto di danzatrici e mimi che si sono uniti al maestoso coro del Regio di 102 voci, tra cui 30 voci bianche, e un organico orchestrale di 85 elementi. Le “immagini magiche”, inserite da Orff nel sottotitolo, sono state il punto di partenza per l’ideazione scenica della Corli che ha voluto rendere il senso di leggerezza e atemporalità evocato dai testi medievali e che ha evidenziato il senso di verticalità nel rapporto tra l’uomo e il divino e ha puntato sull’effetto ciclico dell’opera utilizzando gli orologi cosmici di Kircher. La scena era nuda, vestita solo di pannelli mobili su cui venivano proiettate e retroproiettate immagini di ambientazione e le miniature originali del Codex, per creare interessanti effetti specchio con i cantanti in scena o effetti di trasparenza per permettere ai personaggi di apparire o scomparire "magicamente". I costumi, di ispirazione medievale, di Manuela Bronze e Laura Viglione mischiavano colori terra a tonalità insolitamente sgargianti. Lodevole la direzione di Jonathan Webb e l'esecuzione dell'orchestra: incisiva, precisa, appassionata. Le vocalità deboli dei solisti, che in alcuni momenti venivano sovrastate dalla potenza orchestrale, e la poca suggestione creata da una scena molto cangiante e dinamica hanno ridotto l’impatto emotivo finale sul pubblico che è sicuramente rimasto molto attratto dall’originale costruzione drammaturgica.